L’articolo che racconta della prossima istituzione a Parma di un servizio ospedaliero di psicopatologia per bambini e adolescenti merita un commento. In apparenza infatti questa decisione tenta di colmare una carenza ben nota e presente sia a livello regionale che nazionale di luoghi di ricovero per la salute mentale di adolescenti – meno rilevanti le esigenze di questo tipo per l’infanzia. E in parte certo è così. Va segnalato però che questa nuova creatura istituzionale è figlia di alcune linee di tendenza che è opportuno ricordare e sulle quali è utile riflettere meglio. La nostra città era sede di uno dei servizi di eccellenza a livello regionale, e non solo, per adolescenti e giovani adulti, il ben noto CAGE – Centro Adolescenza e Giovane Età – istituito nel 2000 grazie ad un colpo di mano di Maria Zirilli e lasciato morire nell’ultimo decennio.
Per chi volesse approfondire consiglio il podcast ‘Navigare nella cura’. È universalmente riconosciuto
dagli addetti ai lavori che la carenza di servizi territoriali porta ad un aumento della domanda all’emergenza-urgenza e al sistema ospedaliero che, oltre a produrre altre distorsioni cliniche, aumenta notevolmente il costo dei servizi stessi. È una delle cose che dovremmo aver imparato tutti dal COVID. L’orientamento verso un’assistenza di prossimità, talvolta domiciliare, non è un abbaglio ma la precisa determinazione normativa che segue, e per certi versi accentua, per i bambini e gli adolescenti quanto la riforma della salute mentale del ’78 nonché altri provvedimenti normativi di quella stagione indicavano come orientamento culturale e scientifico. Un orientamento che ha fatto del nostro paese un’avanguardia mondiale, laddove questo dettato normativo è stato attuato, come in buona misura fino a qualche tempo fa è accaduto in Emilia Romagna.
È altresì evidente come l’istituzione del servizio in oggetto si collochi all’interno della strategia di unificazione fra Azienda Ospedaliera Universitaria ed Azienda Usl, prospettiva tanto lungamente perseguita quanto ancora in gran parte in fieri e che contiene luci ed ombre. Siamo qui oggi ancora una volta all’incrocio decisionale di tre culture che convivono con diversa fortuna e rilevanza nella salute mentale. Una cultura biocentrica che tratta la sofferenza umana come esito del malfunzionamento di un organo, il cervello, che circoscrive la sua relazionalità grosso modo al corpo in cui risiede. Una cultura sociocentrica che attribuisce alle determinanti economiche, sociali, culturali la causalità principale del disagio. Ed infine una cultura psicologica e psicoterapeutica che mette al centro il soggetto umano inteso come organizzatore di relazioni. L’assolutizzazione di ognuna di queste prospettive porta con sé semplicismi riduzionistici ma mentre la seconda ha avuto qualche successo purtroppo solo negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la prima era ed è ben vispa e ispira un’idea di salute mentale e di intervento su di essa che si colloca in sintonia con la cultura prevalente della salute: con il medico e l’ospedale al centro e le relazioni interpersonali e sociali all’estrema periferia. La terza prospettiva, quella psicologica e psicoterapeutica nelle sue molteplici forme e declinazioni è marginalizzata e trattata come subordinata nel SSN e dunque quando un servizio, come il CAGE appunto, ne fa il suo riferimento culturale e operativo crea fastidio e viene inesorabilmente sconfitto a vantaggio di una forma di assistenza di matrice ospedaliera che è quella che ispira questa nuova iniziativa.
Se volessimo sintetizzare e concludere potremmo quindi dire che, certo, servono luoghi residenziali – non necessariamente ospedalieri – per adolescenti, ma ne servirebbero molti meno se la rete territoriale fosse stata mantenuta in grado di dare risposte efficaci, connessa con e
valorizzante ciò che fanno i professionisti, oramai spesso aggregati in associazioni ETS e gruppi professionali, avendo cura dei contesti familiari ed educativi dei bambini e degli adolescenti. Partire dalla punta dell’iceberg non sempre è molto opportuno, sempre è molto più dispendioso, spesso, come in questo caso, preserva posture consolidate e marginalizza l’innovazione che invece servirebbe come il pane nella cultura della cura.
Fabio Vanni
Prof a contratto di Psicologia Clinica dell’Infanzia e dell’Adolescenza Università degli Studi di Parma, Direttore Scientifico di Progetto Sum.